Post n°515 pubblicato il 06 Febbraio 2012 da francesco1375
Venti anni fa il mondo stava per entrare in una nuova era, l’era della realtà virtuale.
Ma poi si fermò sulla soglia di questo mondo fantastico.
Ecco cosa accadde.
Alla fine degl’anni ’80, la rivoluzione informatica era ormai esplosa.
Migliaia di persone possedevano un PC, e la potenza di calcolo dei computer appariva sorprendente.
Un vasto pubblico aveva ormai familiarità con le immagini digitali, questo soprattutto grazie ai videogame ormai diffusissimi in case e locali pubblici.
Ormai tutti avevano avuto l’esperienza di interagire con un PC.
La nuova interazione uomo-macchina, la creazione dei primi ambienti tridimensionali, fecero apparire naturale un passo ulteriore: L’integrazione tra mondo reale e mondo virtuale, creato artificialmente.
Notevole divenne a questo punto anche la filmografia sul tema.
L’idea di immergere uno spettatore all’interno di un’immagine è vecchia quanto la fotografia (stereoscopio).
Quella di catapultarlo all’interno della scena di un film risale ai primi anni ’60 (Morton Elig- Sensorama).
Ma di fatto queste tecniche non avevano mai sfondato presso il grande pubblico.
Tuttavia le potenzialità dei nuovi microprocessori e l’interesse generale, convinsero un investitore inglese che fosse giunto il momento del grande passo in avanti nel mondo dell’intrattenimento.
Era l'inizio degl'anni '90.
Costui investì moltissimo in una ditta di Leicester nel Regno Unito . (secondo altre fonti la ditta era di Palo Alto in California. Ma ho fatto una ricerca e credo di essere sicuro che invece era inglese. Ho anche trovato la relazione originale dell'azienda fatta il 9 Ottobre 1991 al Leicester Polytechnic).
Questa ditta si chiamava Industries W, sperimentava sistemi virtuali da tempo e aveva vinto, nel 1989 un premio per la "migliore tecnologia emergente".
Industries W, che successivamente si chiamerà Virtuality realizzò i primi strumenti video ludici virtuali della storia. L'impianto per produrli occupava 22.000 mq.
Si trattava di apparecchi molto complessi.
Per immergere lo spettatore nel mondo virtuale occorrevano parti ardware che circondassero l’operatore umano, e software in grado di gestire un ambiente tridimensionale credibile e che potesse interagire con le persone.
Vennero creati due strumenti: 1000CS per videogiochi da svolgersi in piedi e 1000SD per i giochi di pilotaggio.
Il primo (1000CS) era una piattaforma sulla quale il giocatore stava in piedi. Era circondato da un anello imbottito che gli impediva di cadere o di avanzare inconsapevolmente.
1000SD era fondamentalmente una cabina.
Il giocatore indossava un casco che lo immergeva nel videogame, fornendo una visione stereoscopica a 360 gradi sia orizzontalmente che verticalmente.
Il corpo riceveva stimoli sensoriali quali vibrazioni e spostamenti dalla piattaforma. Questi stimoli seguivano quanto accadeva nel mondo virtuale. Il joystick opponeva resistenza in base ai movimenti compiuti dalle mani e alla resistenza che incontravano afferrando e usando strumenti nell’ambiente simulato.
L'anello di sicurezza del 1000CS produceva un campo magnetico intorno al giocatore, ne registrava i movimenti e li utilizzava nell'ambiente virtuale per simulare gli inseguimenti.
Alla fine l’esperienza era davvero realistica.
Chi ebbe l’opportunità di provare una di queste macchine assicura di essersi sentito letteralmente risucchiato nell’ambiente 3D.
Tutti la descrivono come un’esperienza irripetibile e fantastica.
E se vediamo i filmati su Youtube che mostrano giocatori intenti a giocare, ci si rende conto che in effetti questi si sentivano isolati dal mondo circostante e immersi in quello del gioco.
Uno dei rari luoghi in cui il sistema divenne accessibile al vasto pubblico fu il Virtual Reality Centre di Londra (nel 1993).
Io visitai questo spazio con alcuni amici, ma potei vedere la realtà virtuale solo dall’esterno sui monitor che mostravano in 2D il mondo nel quale si muoveva il giocatore. Potei vedere i giocatori che apparivano davvero coinvolti e seguiti da un’assistente che li faceva salire, scendere, e di tanto in tanto li sorreggeva se perdevano l’equilibrio. Ma non potei sperimentare a causa della lunga coda delle persone in attesa.
Le console erano poche, mi sembra 2, forse 3. Alla fine andammo a vedere un nostro amico che si faceva fare un tatuaggio al primo piano. Tanto, pensai, tra poco queste macchine saranno ovunque. Invece mi sbagliai, quella esperienza non si sarebbe presentata mai più.
Qualcosa non funzionava, fin dall’inizio, in questa breve avventura umana e cibernetica.
La stessa casa produttrice ammetteva che, in fase di test, il quaranta per cento dei giocatori usciva dal mondo virtuale col mal di testa.
Alla fine la realtà virtuale si rivelò un flop gigantesco.
L’esperienza di gioco era coinvolgente, ma stancante e stressante.
A parte la posizione che si doveva assumere, il casco ad esempio era molto pesante (Erano 650 grammi dichiarati ma all’atto pratico sembravano molti di più probabilmente per la resistenza opposta ai continui movimenti del collo dai cavi di controllo).
Conteneva due monitor LCD innovativi per l’epoca e di dimensioni modeste, ma comunque troppo grandi per essere posizionati ognuno davanti ad un occhio. Erano quindi posti di lato e portati alla vista da due specchi posti a 45 gradi. Questo armamentario collegato al resto dell’apparecchio con due grosse cablature era davvero scomodo per essere uno strumento di gioco.
Un altro motivo del flop fu probabilmente la quantità e la qualità dei giochi: in tutto erano solo una dozzina ma i giocatori ebbero il tempo di vederne al massimo otto. Davvero troppo pochi. Poi la qualità: era senz’altro eccezionale all’epoca dal punto di vista grafico, ma molto banale dal punto di vista della trama e dello svolgimento.
Ben pochi giocatori poterono poi apprezzarli a pieno. Si trattava di coin-op molto costosi, si aveva a disposizione davvero poco tempo per giocare. Probabilmente pochi avranno potuto superare il primo livello. A Londra era concesso giocare soltanto tre minuti.
Ma il freno maggiore all’iniziativa fu soprattutto il costo.
Tutta l’attrezzatura costava ben 60.000 dollari. Un’enormità che portò quasi tutte le sale giochi del mondo a desistere dall’acquisto. Furono prodotti soltanto 350 “1000CS”: ben 120 finirono negli Stati Uniti ed i restanti divisi tra Europa e Australia (qui alcuni esemplari sono conservati in un museo).
L’impianto necessario si guastava facilmente e la manutenzione era molto costosa.
Alla fine il prezzo per giocare era molto salato: da uno a cinque dollari al minuto (cambio del 1993).
Sarebbe più o meno come se oggi ti chiedessero di spendere venti Euro per tre minuti di gioco. Forse più che meno.
Ai minorenni era proibito giocare perché si riteneva l’esperienza fosse troppo forte.
Gli adulti disposti a pagare così tanto e a fare lunghe code per pochi minuti di esperienza virtuale in uno sparatutto o in un gioco in cui si deponevano lettere in poligoni 3D erano troppo pochi.
Passata la curiosità iniziale ci si accorse che la clientela era ben troppo scarsa per ammortizzare i costi.
Nel giro di due anni l’esperienza della realtà virtuale video-ludica era conclusa. Relegata al ricordo di una moda passeggera e di un flop commerciale gigantesco.
Eppure dispiace che tanto dispendio di energie e creatività sia andato perso. Che il mondo si sia precluso questa possibilità.
Oggi sarebbe possibile creare apparecchi per realtà virtuale molto più economici, fruibili e coinvolgenti. Basti pensare che, all’epoca, a creare l’ambiente virtuale era soltanto un semplice Amiga 3000, poco più di un Commodore 64.
I giochi virtuali prodotti furono:
Dactyl Nightmare
Grid Busters
Hero
Legend Quest
VTOL
Exorex
Total Destruction
Dactyl Nightmare 2
Zone Hunter
Pac-Man VR.
Teoricamente più giocatori potevano agire nello stesso spazio virtuale tramite una rete locale, a volte video a volte solo audio. Però ciò non accadde quasi mai. Erano pochissime le sale che avevano più apparecchi.
Si ipotizzava anche un collegamento remoto tramite ISDN, ma ciò non avvenne.
Note:
1)Secondo uno studente che provò l'apparecchiatura, la qualità delle immagini era ottima. Però se si ruotava oltre i 70 gradi, diventava inaccettabile. Inoltre guardando verso i piedi si aveva una sensazione di vertigine, la prospettiva in questo caso era falsata.
2) Alla realizzazione dei cabinati partecipò un ex tecnico Rolls-Royce, Richard Holmes, che prestò particolare cura alla resistenza delle piattaforme che dovevano sopportare l'usura prodotta da migliaia di utenti. Gli esemplari oggi esistenti appaiono effettivamente intatti nella loro struttura cabinata.
3) Presso Leicester si trova un centro chiamato Marconi. In questo centro di ricerca inizialmente rivolto ai Radar, furono sviluppate molte tecnologie innovative. Negli anni '70 venne sviluppato un sofisticato e costosissimo sistema di realtà virtuale. Un certo Terry Rowley che aveva lavorato in quella struttura fu, nel 1987, tra i fondatori della Industries W.
4) La plastica della struttura di 1000CS e 1000SD era di colore blù scuro e non nero come potrebbe sembrare dalle foto.
5) Industries W pensava realmente di trasporre la sua tecnologia videoludica in altri settori. Ad esempio la telemedicina.
6) In uno dei primi video-giochi Virtuality, un aliante volava verso il mare. Quando lo raggiungeva era seguito dai gabbiani. La routine dei gabbiani fu riutilizzata per creare un aggressivo Pterodattilo in un gioco successivo.
7) Una strana preoccupazione aveva colto gli sviluppatori di questi giochi: l'implicazione psicologica di essere ucciso virtualmente. Per cui quando perdevi, ad esempio se venivi colpito in uno spara-tutto oppure avevi un incidente in una simulazione di guida, vedevi il tuo alter-ego virtuale in terza persona, per ricordarti che non eri realmente tu ad essere colpito.